Silenzio. Le senti? Cicale e grilli compongono un'ensamble tra i radi cespugli che circondano la Locanda Benson. Eppure anche loro tacciono quando sentono la sedia trascinata, i boccali poggiati sugli usurati tavolacci di legno. Nektarios spara il suo colpo di 9 mm preferito: "Non posso scegliere dove sono nato, ma posso scegliere chi voglio diventare."
Ed è di nuovo schiamazzi, tintinnii, frinire di insetti.
Itaca è rimasta col fiato sospeso un solo istante ad ascoltare il giovane ereditiero dei Benson, ma è bastato a far vibrare i cuori di una mezza dozzina di ragazze. E come dar loro torto? Il ragazzo ha già tutto, ma non lo vuole. Bazzica giorno e sera in una locanda che è sua, ma da cui si guarda bene dal prendere le redini. Quando non è intento ad essere sogno di molte mogli ed incubo dei loro mariti, quando l'alcol non trasforma il suo dolore in sfrontatezza e malinconica protervia lo si può vedere lì, al bancone, a leggere lettere, a contemplare disegni. Vecchi e nuovi. Di amanti e nemici. Le aspettative del padre, il timore della madre. Conserva tutto in quella scatola, mai troppo lontana da un manganello nodoso. E tra quei fogli ha iniziato a tracciare linee e nessi. Storie nuove, storie diverse da quella che è stata confezionata per lui. Un vestito nuovo. Si dice che Nektarios sappia più di quanto faccia trasparire, e tra una smargiassata e l'altra la sera spacci spesso semplice acqua per spirito, si mostri ubriaco per sedere ai tavoli dei chiacchieroni. E ascoltare, e tracciare nuove linee. Nella speranza che così facendo la sua torni ad incrociarsi, presto o tardi, con quella della sorella Myrtha
Myrtha - La MalapiantaFactions: Il Simposio di Penelope, BensonTeaser: La povera, dolce, sventurata, disgraziata Myrtha. Viene chiamata "La malapianta". La buona a nulla dei Benson. Nata donna in una famiglia dalle idee molto tradizionali e cresciuta come se non contasse (...). E nel frattempo quel vestito fatto di storie e sogni è quasi finito, il vestito del futuro patriarca Benson: lo indosserà il locandiere, il donnaiolo o qualcosa di ancora diverso?
Polvere e miseria.
Questo sarebbe Itaca se non fosse per quelli dell'Acropoli. Un luogo per cani randagi e morti di fame, un paese fantasma condannato all'oblio eterno. Certo che la gente si lamenta per come vanno le cose, ma così è la gente. Ha la memoria di un tacchino... troppo facilmente ci si dimentica di come si stava prima e si pensa ai bei tempi andati come se fossero esenti da problemi. Usurpatori, li chiamano. Quei pendagli da forca buoni a nulla si sono dimenticati della miseria a cui ci avevano ridotto i Propilei della Vecchia Guardia, quando erano loro a gestire l'affare pubblico da queste parti. Si sono dimenticati di quando Laerte Grant si rimboccò le maniche e decise che era venuto il momento di cambiare le cose.
Grand'uomo Laerte, lui sì che ci sapeva fare. Scalzò dal loro posto al sole quei vecchi bacucchi dei Propilei, buoni solo a parlare, prese nelle sue mani il gravoso compito di Sindaco di Itaca e istituì l'Acropoli. Un circolo di cittadini virtuosi che, sotto la saggia guida del Sindaco Grant stesso, sapesse far girare le cose come si doveva.
Quando venne il momento per Laerte di godersi un meritato riposo, fu allora la volta del figlio Ulisse a prendere su la carica di Sindaco. E, con lui al comando, Itaca divenne prospera come non mai... se solo fosse durata. Mi chiedo quanto lui e la sua Acropoli avrebbero potuto fare di noi tra i più grandi Stati dell'Ellade.
Ma scoppiò la Guerra e il nostro buon Sindaco fece quello che qualsiasi uomo d'onore come lui avrebbe fatto: imbracciò il fucile, raccolse i suoi uomini più fidati e partì a combattere per tutti noi, andò al fronte a servire il nostro stimato Presidente McFarlan. Le malelingue dicono che se non gli avessero minacciato il figlio Telemaco mica sarebbe partito, ma sicuramente sono solo voci messe in giro dall'invidia di chi non potrebbe neanche lucidare gli stivali di un uomo come il Generale Ulisse Grant.
Come che andarono le cose, fatto sta che partì e ora ci ritroviamo la giovane moglie di Ulisse, Penelope, a gestire affari troppo grandi per le sue dolci mani. Affidarle la carica di Sindaco fu un'idea di Laerte, ormai troppo vicino alle soglie dell'Ade per continuare le opere del figlio e, probabilmente, anche per pensare lucidamente. Avrebbe dovuto essere una soluzione temporanea certo, ma intanto sono passati venti stramaledetti anni. E hai voglia a dire male a quelli dell'Acropoli, ma se non fosse stato per loro che in tutti questi anni hanno supportato e sopportato il lavoro di quella povera donna, te lo dico che Itaca adesso sarebbe solo polvere e miseria. Certo le brave genti dell'Acropoli non fanno mistero di quanto pensano che le cose andrebbero meglio se un uomo forte tornasse nuovamente al timone della baracca, ma si tratta di persone di saldi princìpi morali che hanno dato la loro parola. E, come tali, non si permetterebbero mai di infangare l'onore di Itaca con astuzie meschine, né, meno che mai, di gettare ombre sulla famiglia Grant. A ogni modo, c'è da dire che tra le conseguenze della Guerra e il dover schivare tutte le pallottole di malignità che quotidianamente vengono rivolte a loro e a Penelope, l'Acropoli continua, nonostante tutto, a far girare le cose per il meglio qui.
Quanto meno, grazie a loro, il cibo in tavola e il whiskey al saloon non ci sono mai mancati e certo non è cosa da niente.
Motto: "Le vite passano. La vite resiste."
Ah, i Benson. Un tempo, bastava sentire quel nome per aspettarsi un discorso che ti avrebbe incantato o fatto infuriare, ma mai lasciato indifferente. Erano gli uomini e le donne dell’Agorà, quelli che trasformavano una discussione in un’abile spettacolo oppure una battuta in un’arma strategica. Conoscevano l’arte della parola meglio di chiunque altro, sapevano piegare la lingua come un vignaiolo piega i rami della vite per guidarne la crescita, e la gente ascoltava. Oh, se ascoltava bene.
Ma i tempi cambiano, e l’Agorà non è più il centro cittadino che era un tempo. Le piazze si sono svuotate, le idee si sono fatte più pesanti, e i Benson, privati della loro arena, si sono lasciati sprofondare nelle viscere del saloon. Un ripiego, all’inizio. Un diversivo. Ma col tempo, quella che doveva essere solo una parentesi si è trasformata in un vicolo cieco, un tino dimenticato in cui il mosto non fermenta più, dove l’unico odore che resta è quello del vino versato e delle promesse evaporate.
Ora li trovi lì, su sedie sbilenche, con i gomiti appiccicati ai tavoli impregnati d’alcool rancido e le vesti che sanno di vino andato a male. I loro discorsi, un tempo brillanti come il primo sorso di un’annata pregiata, scivolano ora tra i denti come l’ultimo goccio di un bicchiere dimenticato, senza peso, senza direzione, sommersi dal brusio di chi mastica troppo e pensa troppo poco. Il loro pubblico non è più quello delle piazze, ma un’accozzaglia di ubriachi che ridono troppo forte o dormono con la testa affondata nei boccali.
Ora si dice che parlino per riempire il vuoto, come un ramo di vite secco che ancora si ostina a cercare la luce. A volte discutono ancora con fervore, ma è un fervore stanco, più simile a un grappolo d’uva già schiacciato nel fango. E quando le parole non bastano più, quando la frustrazione supera la lucidità, allora ecco che un Benson rovescia il boccale, getta un insulto velenoso e si lancia in una rissa, solo per sentirsi vivo, solo per sentire qualcosa.
Sembra che non parlino più per convincere, per ispirare, che il saloon li abbia ingoiati nel suo fetore di vino stantio e disperazione. Ma attenzione: la vite può sembrare morta d’inverno, rinsecchita e vuota, ma basta la stagione giusta, basta una scintilla di sole, e all’improvviso ti ritrovi un tralcio verde e nuovi acini maturi pronti a essere raccolti. E i Benson? Oh, non sono diversi. Aspettano solo il momento giusto per tornare a dare alla città un sorso di verità che nessuno sarà in grado di sputare.